Dalla montagna alle aree interne

1 febbraio 2013

Il 15 dicembre scorso si è tenuto a Roma il seminario dal titolo: “Le aree interne: nuove strategie per la programmazione 2014-2020 della politica di coesione territoriale”. Le “aree interne” sono state definite (provvisoriamente) come «quella vasta e maggioritaria parte del territorio nazionale non pianeggiante, fortemente policentrica, con diffuso declino della superficie coltivata e spesso affetta da particolare calo o invecchiamento demografico».  In questa definizione ricade buona parte del territorio montano, ma non tutto, mentre vi rientra una parte importante del territorio collinare, più le isole minori.
Nella programmazione dei fondi comunitari 2014-2020 non vi sarà dunque una politica per la montagna, ma per le “aree interne”. Questo sembra in parziale contrasto con la Costituzione, che mentre all’art. 44 afferma che «la legge dispone provvedimenti a favore delle aree montane», non prevede altrettanto per altre aree svantaggiate. La nuova politica per le “aree interne” non si discosta tuttavia dalla legislazione nazionale sulla montagna in cui si è poi tradotto il dettato costituzionale, perché essa riguardò fin dall’inizio anche altri territori. Già nella Legge 991/1952 (“Provvedimenti in favore dei territori montani”), veniva previsto che gli stessi provvedimenti potessero riguardare  anche comuni con «analoghe condizioni economico-agrarie». Così il dettato costituzionale veniva interpretato facendo rientrare nel significato di “montagna” tutti i  territori in condizioni svantaggiate.
Nel frattempo il tema dei “territori svantaggiati” compariva  anche nei documenti dell’Unione europea. In Europa 2000+ (1995) si introduceva la categoria delle “aree rurali  con difficoltà di accesso”, corrispondenti a «molte aree collinari e montane, oltre alle isole minori». Sempre in questo documento la separazione del concetto di aree montane da quello di aree svantaggiate era poi evidente nel capitolo dedicato all’Arco alpino, identificato con uno spazio comprendente tutte le regioni circostanti, dall’Alsazia, alla Baviera, all’Emilia-Romagna. E pressappoco la stessa delimitazione sarà poi fino a oggi quella dagli INTERREG Spazio Alpino.
Negli ultimi vent’anni l’UE ha però modificato l’originaria visione in negativo dei territori svantaggiati e ha cominciato a parlare di  territori  “diversi”, che possono essere strategici  in una prospettiva di sviluppo sostenibile, grazie alla loro valenza economica, ambientale, energetica e culturale (vedi ad esempio il Libro verde sulla coesione territoriale, 2008). Sono così maturate le premesse dell’attuale politica italiana delle “aree interne”. Già il Piano Strategico Nazionale (PSN) per la programmazione dei Fondi comunitari 2007-2013 prevedeva interventi prioritari di sostegno allo sviluppo per tutte le regioni agrarie ISTAT che ricadono nelle zone altimetriche di montagna e collina.
C’è dunque una continuità evidente tra questa evoluzione nelle politiche di riequilibrio territoriale (ora dette di coesione territoriale) e la recente definizione ministeriale delle “aree interne”. Tale continuità è resa evidente dalle prime prove di individuazione presentate al seminario.  Il territorio nazionale è stato diviso in quattro zone di crescente distanza (<20’, 20’-40’, 40’-1h15’, >1h15’) da centri urbani provvisti di servizi di livello medio-superiore. Considerando “interne” le due ultime zone (>40’),  esse coprono il 31,5% della superficie nazionale, con solo il 7,7% della popolazione e con un calo di circa il 6% degli abitanti dal 1971 ( -1,2 % dal 2001).  A prima vista sembra che possa esserci una buona coincidenza con le aree di montagna, che, secondo i criteri altimetrici adottati dall’ISTAT,  occupano il 35,2% del territorio nazionale. In realtà sono numerosi i comuni montani non “interni” e ancor più numerosi i comuni collinari da considerarsi “interni”.
A ben vedere il divario tra le categorie “montagna” e “aree interne” riflette la parziale divergenza fra tre modi di intendere la montagna che si sono avuti in Italia e in Europa negli ultimi decenni. Uno si fonda sulle caratteristiche geografico-strutturali: è ad esempio quello dell’ISTAT in Italia o quello adottato per tutte le Alpi dall’omonima Convenzione. Un secondo vede nei “massicci”  (o catene montuose) dei territori geograficamente connotati che però non possono essere separati da quelli dell’avampaese circostante: è la soluzione proposta da Europa 2000+ e dall’INTERREG Spazio alpino. Una terza infine considera la montagna non in base alle sue caratteristiche intrinseche, ma in quanto territorio deprivato (lontano dai servizi, spopolato, con poche opportunità di lavoro) rispetto ad  aree centrali più prospere.
A seconda della visione prevalente si hanno politiche in parte diverse tra loro. Così ad esempio le politiche della Convenzione delle Alpi sono ritagliate sui caratteri intrinseci della montagna, quindi mirano alla tutela dei patrimoni naturali e culturali, e allo sviluppo sostenibile basato sulle risorse endogene specifiche. Le politiche dello Spazio Alpino sono soprattutto politiche di integrazione di grandi regioni transfrontaliere. Le politiche per le aree svantaggiate si sono trasformate da politiche di semplice compensazione a politiche di sviluppo attraverso la valorizzazione delle potenzialità locali.

Come si situi in questo quadro la politica delle “aree interne” prevista per la programmazione 2014-2020 lo si deduce, più che dalla definizione “in negativo” datane nel seminario del 15 dicembre,  dalla successiva proposta del ministro BarcaMetodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020”. In questo documento  le “aree interne” sono una delle tre “opzioni strategiche” (assieme a Città e Mezzogiorno) della programmazione nazionale. In esse si dovranno raggiungere tre obiettivi generali tra loro interconnessi: 1) tutela del territorio e della sicurezza incentrata sul ruolo dei loro abitanti, 2) promozione della diversità naturale, culturale, del paesaggio e del policentrismo aprendo all’esterno, 3) rilancio dello sviluppo e del lavoro attraverso l’uso di risorse potenziali male utilizzate. Il tutto rivolto ad assicurare «modelli di vita competitivi con quelli offerti dalle aree urbane».
Si tratta dunque di una politica che, pur assumendo come punto di partenza condizioni di svantaggio oggettivo, non si pone in una logica assistenziale, ma mira a uno sviluppo che implicitamente chiama in causa anche le altre due concezioni che ho ricordato. Fa leva cioè sulle potenzialità intrinseche dei territori e vede il loro sviluppo aperto al concorso di popolazioni e forze esterne.
Ma allora occorre fare un passo avanti nella definizione delle “aree interne”. Essa non può basarsi solo sulla misura di ciò che queste non hanno, o a cui non possono accedere in tempi ragionevoli (i servizi, il lavoro in attività economiche più qualificate). Se uno degli obiettivi è lo sviluppo, occorre anche definire le aree interne in base a ciò che hanno di buono e di cui  invece i “centri” difettano: la neve, le risorse energetiche rinnovabili, la biodiversità, i prodotti tipici agro-pastorali, i boschi, i patrimoni naturalistici, paesaggistici e culturali diversificati, ecc.
Questa sarà la proposta di Dislivelli.
Beppe Dematteis

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