Da Brescia alle Pertiche di Val Sabbia. Storia di una nuova montanara (Prima parte)

4 novembre 2014

Le Pertiche, suddivise nei due comuni sparsi di Pertica Alta e Pertica Bassa, sono una delle più belle località montane del territorio bresciano. A soli 40 chilometri dalla città, tra i 500 e i 2000 metri di altitudine, si collocano nel comprensorio montuoso dell’alta Val Sabbia tra la sponda orografica destra del fiume Chiese, all’altezza dell’abitato di Vestone, e la dorsale alpina confinante, a nord-ovest, con l’alta Val Trompia. Per arrivarci, è necessario percorrere venti minuti di curve lungo una provinciale a una sola corsia, e dal fondovalle risalire a quote più elevate, da cui si gode di un bellissimo panorama fatto di piccoli borghi, boschi, prati e numerosi fienili disseminati qua e là, un tempo adibiti a ricovero del bestiame, stoccaggio del fieno e produzione di burro e formaggio. Terra di agricoltura di sussistenza e allevamento familiare, ha conosciuto una discreta prosperità in età moderna e, in particolare, sotto il dominio della Serenissima: grazie all’abbondanza di acqua dei torrenti Tovere e Degnone e grazie alla disponibilità di carbone di legna ricavato nei boschi di latifoglie, vi erano attivi alcuni forni per la fusione del minerale ferroso estratto dalle “vene” dell’alta Val Trompia, trasportato a dorso di mulo attraverso i passi intervallivi. A partire dal secondo dopoguerra, con l’avvento e il fiorire dell’industria siderurgica, le attività agro-silvo-pastorali vennero gradualmente relegate al ruolo di passatempo e integrazione al lavoro in fabbrica, che consentiva un reddito sicuro, tutele e tempo libero. Anche i borghi, un tempo popolosi e animati, hanno conosciuto un graduale spopolamento e non è difficile oggi imbattersi in case dalle imposte sempre chiuse o fienili in stato di abbandono.

È in questo contesto geografico ed economico-sociale che si inserisce la storia di Mariagrazia Arrighini, nota agli abitanti locali e ai frequentatori del posto come “la cavréra” (la capraia, in dialetto bresciano): dal 2004, infatti, alleva capre bionde dell’Adamello e produce formaggi con il loro latte.
Classe ’64, nasce a Brescia, dove vive per i primi quarant’anni. È una “nuova montanara”, Mariagrazia, non è originaria di quassù. In città, dopo gli studi in optometria e qualche breve esperienza di lavoro all’estero, apre un suo negozio di ottica. Non le manca nulla: un lavoro che le piace, denaro sufficiente per trascorrere un’esistenza agiata, viaggi, vacanze, una vita sociale attiva. Ma con una spina nel fianco: la noia, probabilmente causata da troppe certezze e dalla mancanza di sfide, per una personalità intraprendente e in perenne ricerca ed evoluzione come la sua. Una vita per lei troppo facile e scontata. Il trasferimento in montagna non nasce, dunque, da un disagio materiale e non è determinato da fattori pratici e oggettivi, quanto più dal bisogno tutto interiore di rischiare, mettersi alla prova con qualcosa di nuovo e di stimolante. Nel 2004, la scelta di andare a vivere nella vallata del Degnone, in territorio di Pertica Bassa, alle pendici della maestosa Corna Blacca; montagna che darà di lì a poco il nome alla sua azienda agricola.

Quasi per gioco, e per curiosità, decide di prendere qualche capretta. La capra bionda dell’Adamello è la razza che la incuriosisce di più: autoctona della bresciana Val Saviore, in estinzione, rustica, bella, con quel pelo biondo e folto. «Le prime capre le ho prese in Val Camonica, erano delle caprette che allattavo ancora col biberon. Ho iniziato per scherzo, poi la cosa mi ha coinvolto e adesso ne ho 53, tra grandi e piccole», dice con orgoglio. Questa attività la appassiona e la coinvolge, facendole dimenticare quella noia che spesso accompagnava le giornate in città, chiusa in negozio. E se in un primo tempo fa la spola tra la montagna e il lavoro, ecco la decisione, a un anno dal trasferimento: fare dell’allevamento delle capre bionde dell’Adamello il suo lavoro, la sua vita. Il negozio di ottica viene venduto e Mariagrazia inizia a frequentare corsi per apprendere l’arte dell’allevamento caprino, della mungitura e della caseificazione.

«Penso che la capra sia per me, anche come donna, l’animale giusto con cui lavorare. Mi fa tribolare, perché quando le capre si mettono in testa una cosa è difficile dominarle, però mi dà molta soddisfazione, mi piace. Io non cerco un tipo di allevamento esclusivamente per il reddito, perché altrimenti andavo avanti a fare l’ottico. Mi deve dare qualcosa, e io devo dare la possibilità alle mie capre di vivere decorosamente. Mi piace molto perseguire questo equilibrio tra il mio vantaggio e il loro benessere. Sono contraria agli allevamenti intensivi per cui l’animale viene visto come una macchina che deve produrre latte. Non è la mia filosofia. Io voglio vivere col loro aiuto, ma loro devono stare bene. Le faccio macellare quando vedo che non sono più in grado di fare la loro vita da capre, di seguire le altre al pascolo. Per me, questi, sono equilibri naturali. Altre persone potrebbero vederla diversamente, ma la mia consapevolezza arriva qua. Forse un giorno cambierò idea e maturerò un punto di vista diverso», racconta, in un pomeriggio di settembre, a Malga Valsorda, situata sopra l’abitato di Livemmo, dove trascorre i mesi estivi.
Michela Capra

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