Ambiente montano: il tempo del coraggio

29 settembre 2019

“[…] E invece viene un giorno nella vita
che scegli e se non scegli l’hai tradita […]”
Cappuccio rosso di Roberto Vecchioni

Erica è una ragazza di città che insieme al suo compagno ha scelto di vivere e far nascere la loro figlia Stella in una frazione abbandonata della Val Pellice. Stanno restaurando pezzi di borgata e si sostengono coltivando la terra e proponendo corsi di bioarchitettura. Ne ho conosciuti tanti come loro: ragazzi quasi sempre con una laurea in tasca che invece di migrare a Londra o Berlino scelgono di fermarsi nell’Italia “minore”, quella delle aree interne, per realizzarsi in un rapporto più diretto con la wilderness locale, all’insegna della biosostenibilità. Ma, di là dall’ammirazione per scelte così coraggiose ci si domanda quanto questa idea di vita scandita dalla sobrietà, dal senso del limite, in una continua ricerca di un equilibrio uomo/natura possa essere avvincente o addirittura convincente per una collettività più vasta. E ancora: questi nuovi abitanti delle aree interne sono gli odierni “figli dei fiori” destinati ad una più o meno durevole marginalità? O l’espressione più estrema di uno stile di vita che potrebbe caratterizzare una parte consistente delle future generazioni? Secondo alcuni il fenomeno Greta, per le dimensioni che ha acquisito, potrebbe addirittura prefigurare l’affacciarsi di una nuova generazione green “giovane, istruita e … al femminile”. Come Erica, finalmente pronta a sperimentarsi su modelli di consumo più sostenibili e quindi capace di ridurre l’impatto ambientale umano. Il cambiamento culturale richiesto è comunque enorme e i tempi per scegliere sono molto stretti. L’euforia dei tanti giovani del “Friday For Future” e le sempre più numerose pratiche virtuose che vediamo in costante crescita fanno ben sperare anche se rimane la paura di non arrivare in tempo. Senza contare che la figura cristallina di Greta con il passare dei mesi si potrebbe sbiadire, rischiando di ridursi ad una semplice narrazione emozionale. Raccontare rigorosamente e razionalmente quanto sta accadendo al pianeta non è facile e non solo per la complessità scientifica degli argomenti, ma anche perché non sempre siamo capaci di farci ascoltare nel più profondo. La complessità così come noi la sappiamo narrare non sempre attrae le giovani generazioni, poco propense a soffermarsi, approfondire e studiare con noi, alla nostra maniera. Le sale dei nostri convegni seppur piene, contengono per la gran parte un pubblico “over-anta”. Un pubblico adulto comunque importante, che ci segue e si appassiona, sempre più sensibile alle problematiche ambientali così come ci confermano le indagini statistiche.

Addirittura secondo un’indagine della Commissione europea, realizzata nel 2017, sulle percezioni dei cittadini riguardo all’ambiente emerge una convinta propensione da parte sia degli europei (94%) sia degli italiani (95%) a considerare importante la protezione dell’ambiente. Una sensibilità che chiede attenzione, da curare e indirizzare verso un maggior numero di azioni virtuose, anche quando le prospettive si fanno più difficili. Chi di noi si sta sperimentando su questi fronti sa molto bene che con i cambiamenti climatici in atto ci stiamo avventurando in terreni sconosciuti con eventi non prevedibili e caotici ed è molto difficile costruire una percezione corretta della dimensione del problema. Il dramma è così enorme che quando se ne ha la consapevolezza si rischia di annichilirsi, reagendo con una negazione psicologica che sfocia nell’apatia. A complicare le cose si aggiunge poi una certa sfiducia nella scienza che qua e là serpeggia nella parte più New Age dell’ambientalismo tanto da portare i proseliti di questo scetticismo a non discernere più le vere criticità. E’ il caso delle tesi no-vax o più banalmente della recente contrapposizione al nuovo Testo Unico Forestale dove con un malinteso senso di protezione dei boschi si è dato spazio ad un conflitto assurdo nei confronti di coloro che sostenevano una gestione attiva, seppur consapevole e responsabile delle foreste.
Nel nostro Paese c’è ancora tanta differenza tra problemi reali e percepiti. Va osservato poi che nel comune sentire, a fianco dei tanti che lavorano per un mondo migliore, si sta facendo spazio un pezzo di Italia che vive di sfiducia, rancore e egoismo. Sentimenti che, come ci racconta il Censis nel rapporto Le ragioni sociali di un sovranismo psichico si vanno tramutando in cattiveria. Quasi come se questi atteggiamenti possano divenire l’unica arma di difesa di quel benessere acquisito attraverso le generazioni precedenti e che si teme fortemente di non riuscire a conservare. Si sta configurando una dimensione della precarietà permanente e non solo dal punto di vista climatico, precarietà che impedisce di pensare al futuro sotto tutti gli aspetti, difficile da aggredire. Perché se da un lato è cresciuta la cultura di una visione ecologica complessiva dall’altro si sono rese più evidenti maggiori disuguaglianze ambientali, sociali e culturali. Nuove disuguaglianze che hanno causato più povertà e discriminazioni, favorendo l’insidiarsi di insicurezze e paure. Sta montando una società del rancore che a livello locale si esprime con piccoli “sovranismi” individuali. Anche dal punto di vista ambientale. Il fenomeno rischia di diventare piuttosto pericoloso se pensiamo alle case abusive sempre più difficili da abbattere (condono tombale con il Decreto Ischia), al consumo di suolo e, più in generale, al disprezzo verso tutte le forme di tutela delle aree a rischio idrogeologico e ambientale (fiumi non “puliti” a causa degli ambientalisti) insieme all’intenzione di trasformare la montagna in un luna park.
Paradossalmente la sostenibilità e il biologico rischiano di diventare un’opzione di nicchia per persone colte e benestanti che se lo possono permettere. Proprio per questo non possiamo nasconderci il fatto che la riconversione richiede che qualcuno paghi e non possiamo pensare di far pagare solo i più poveri. La domanda centrale da porci e alla quale dobbiamo trovare velocemente delle risposte è: come faccio a rendere desiderabili e possibili nuovi stili di vita per persone che hanno poco o niente? La chiave interpretativa va ricercata in quella che Papa Francesco nell’Enciclica Laudato Sì ha sefinito l’“ecologia integrale”, che unisce la giustizia ambientale a quella sociale. Un’ecologia dove le comunità assumono il ruolo fondamentale di collante di società frammentate e disorientate.
Dieci, venti anni fa non avremmo previsto una situazione così inverosimile poiché se da un lato molte delle nostre idee sono diventate patrimonio comune, e penso ad esempio al problema della gestione dei rifiuti o alla consapevolezza dei danni causati dall’inquinamento atmosferico, dall’altro eravamo ben lontani dal prefigurarci una crisi sociale e ambientale di questa portata. Di fronte a tutto questo non possiamo restare inermi: al tempo della consapevolezza ora deve seguire “il tempo del coraggio” (slogan del prossimo congresso nazionale di Legambiente – novembre 2019) perché il mondo oggi ha un gran bisogno di scelte coraggiose.
Vanda Bonardo

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